G. Dorfles, Appunti sullo Zen e sulle sue qualità comunicative

DA GILLO DORFLES (1910): “SIMBOLO, COMUNICAZIONE E CONSUMO”, EINAUDI [1962]

  1. I concetti di “wa-za” e di “asobi”

Il troppo discorrere che di recente si è fatto torno allo Zen[1], specie nei suoi presunti o apparenti rapporti con molta arte occidentale moderna, ha gettato ormai un certo discredito su questa importantissima e antichissima correnti del pensiero buddista, al punto che una dottrina millenaria come il buddismo e una “setta” come la zenista, che ha dominato il pensiero e l'arte giapponese per più di ottocent’anni, rischiano di andar soffocati sotto le attribuzioni più superficiali da parte di romanzieri, scrittori, musicisti, in cerca d’una comoda etichetta da applicare alle loro opere.

Ho creduto di dover avanzare questa premessa negativa sugli eventuali sviluppi degli studi zenisti proprio ad evitare che si possa credere in una mia intenzione di porre un raffronto tra gli scritti degli Hypsters statunitensi o certa pittura tachista o certa musica puntiglista, e quelle opere dell'arte nipponica, sorte da una vetusta e raffinatissima tradizione culturale, e che sono ben lungi da ogni improvvisazione e da ogni moda.

Eppure - prima ancora di affrontare (con quella umiltà sta che ritengo necessaria per chi sia sprovvisto come me di una conoscenza diretta della lingua e della civiltà estremorientale) l'argomento d’una “estetica Zen” - vorrei affermare come degli sfoghi reclamistici di taluni giovani artisti, nelle improvvisate filiazioni culturali di certa arte dei nostri giorni, si deve pur ammettere un sia pur nebuloso tendere verso qualcosa di diverso dalla consueta prassi artistica occidentale, qualcosa che si presenta oggi all'uomo dell’abendland forse solo come un miraggio di libertà e di rinnovamento espressivo, ma che indubbiamente dimostra un bisogno di trovare altrove quelle nuove possibilità comunicative e linguistiche che la nostra antica civiltà europea forse ha cessato di offrire. Il mio intento, perciò, è qui, soltanto, quello di analizzare alcuni elementi dello zenismo, così come ci viene rivelato attraverso gli scritti di alcuni autori e di vedere sino a che punto questi scritti si prestino a un discorso che possa estendersi a una nuova, o almeno diversa, capacità comunicativa. E sin dove, finalmente, sia possibile ragionare d’una “estetica Zen” come di alcunché di precisamente distinto dalle nostre consuete opinioni estetiche occidentali. Spesso, l'abbiamo ormai affermato ripetutamente, a una precisazione linguistica corrisponde anche la formulazione successiva d’un concetto. Spesso alla concettualizzazione segue l'immagine che la parola e l'azione suscitano. E mi sembra ammissibile pensare che alcuni principi descritti e definiti dallo Zenismo siano “scivolati” nella mentalità occidentale, quasi all'insaputa di chi se ne ebbe a valere. Sicché l'andar ricercando l'origine prima di tali concetti là dove si sono venuti per la prima formulando non sarà forse del tutto ozioso.

Vorrei principiare allora con l'enunciazione di alcuni termini-chiave che, anche nella loro traduzione certo impropria e insufficiente, possono servire di guida al mio ragionamento; giacché una delle condizioni di cui occorre tener conto è la difficoltà di far coincidere dei concetti trasferiti nel nostro linguaggio con quelli, indubbiamente polimorfi e oltretutto dilatati della loro originaria trascrizione ideografica, delle lingue orientali.

Sull’esatto significato gnoseologico ed etimologico di questi e di tutti gli altri termini di cui mi valgo qui non può esserci una sicura resa fuori dal loro contesto linguistico, tuttavia ho cercato di valermi di spiegazioni e precisazioni assunte direttamente da giapponesi esperti nelle dottrine zeniste.

Per gei si intende un atto, un'azione, che nel wa-za (funzione, apprendimento) trova la sua estensione, la sua generalizzazione; intendendo come wa-za una generale nozione di attività umana che accompagna ogni abilità nell'esercizio di un'arte o d’un mestiere. Ora risulta che l'arte - o almeno quella che di solito designamo con tale nome - si suol chiamare in giapponese gei-jutsu (termine che comprende le varie categorie artistiche: danza, musica, poesia ecc.); ma se gei-jutsu si può contrapporre a wa-za, a quest’ultima si può contrapporre a-so-bi, che ne costituisce un altro aspetto. Asobi significa propriamente gioco, e come tale include esso pure il canto, la danza, il tiro con l'arco, la musica: tutte, in altre parole, quelle che si sogliono considerare come “arti”. Sappiamo, d'altronde, che fino a pochi decenni or sono non esisteva in Giappone una precisa parola per indicare l'arte[2] (come del resto accadeva nella Grecia antica dove il vocabolo téchne valeva tanto per arte che per tecnica, mentre solo nel greco moderno si cominciò ad usare il termine calà téchne ad indicare le “arti belle”). Questa assenza del termine specifico per designare l'arte prova ancora una volta come, proprio coll'instaurarsi d’un declino dell'arte si avverta il bisogno di darle un nome. O piuttosto come non vi fosse bisogno d’una indicazione particolare che differenziasse arte e tecnica, arte e religione, arte e mito, arte e natura, finché l'arte era ancora intimamente legata alla natura, alla religione, alla tecnica, al mito. L’arte dell'antico Giappone ne è una prova: “arte” (o tecnica o gioco) del giardinaggio, della scherma, dell'arco, del tè, della scrittura, della danza; ciò significa che tutte codeste “operazioni” apparentemente tra di loro lontane (che oggi chiameremmo sport, edilizia, rito, combattimento, calligrafia) erano “intrise” di arte, erano consustanziate all'arte, o meglio ancora a quel principio adombrato dallo Zen che potremo definire illuminazione, chiaroveggenza, o semplicemente perfetta coincidenza della tecnica istintiva con l'elemento intuitivo sviluppato nella meditazione.

Oggi, probabilmente, non è così neppure in Giappone (a quanto ci viene riferito da alcuni autorevoli critici[3]); evidentemente non può e non deve più essere così; ma è importante, fondamentale anzi, che l'uomo d'oggi sia cosciente di questo fatto e non continui a considerare “arte” (del passato) solo quello che corrisponde al suo concetto attuale d'arte (trascurando, ad esempio, nel caso del Giappone, l'arte del giardino, l'arte di disporre i fiori [ikebana], l'arte della scherma, l'arte della lotta, l'arte del rito all'arco ecc.), oppure, al contrario, che pretende di far rientrare in una attualità artistica elementi e strutture dell'antichità che, anziché appartenere all'arte, appartenevano a tutt'altro settore. 

[1] Zen (cinese ch’an) da zen-na (ch’an-na) equivalente al sanscrito dhyāna (meditazione yogica) è una delle suddivisioni della corrente buddista Mahāyanā. Per uno studio, sia pur elementare, del concetto, della storia, e degli sviluppi dello Zen si veda il recente volumetto Lo Zen, di Alan W.Watts, Milano, Bompiani, 1959, seguito da una “nota” conclusiva di Umberto Eco dove è tracciato anche un agile panorama degli sviluppi attuali di questa dottrina nei suoi rapporti con la filosofia, l'arte e il pensiero contemporaneo. Uno studio più approfondito della dottrina Zen ci è offerto soprattutto da alcune opere di D. T. Suzuki, e tra queste ricordo i tre volumi Essais sur le Bouddhisme Zen, Paris, Albin Michel, 1940-1943; Studies in Zen, New York, Philosophical Library, 1955; e Zen and Japanese Culture, “Bolligen Series”, LXIV, New York, Phanteon Books, 1959. Per i rapporti tra Zen e poesia, si veda: R.H Blyth, Zen in English Literature and Oriental Classics, New York, 1960.
[2] “A word corrisponding to “fine art” did not exist in Japan until about 1870”(Cfr. Sabro Hasegawa, “Abstract Art in Japan”, in The World of Abstract Art, New York, Wittenborn, 1957.
[3] Cfr. Pierre Alechinsky, “Calligraphie Japonaise”, in Quadrum, 1956, n.1.

                                                                  

           2. L’elemento ludico dell’arte

Il fatto - cui dinanzi accennavo - che la parola a-so-bi (gioco) valesse a designare spesso le arti, ci indirizza oltretutto verso un altro dei concetti che ritengo fondamentali per la comprensione d’un estetica estremorientale, e specificatamente zenista, ossia come l'elemento ludico sia identificabile con quello artistico. Ho avuto, un'altra volta, occasione di soffermarmi sull’esame dell'elemento ludico (e ludiforme) nell'opera d'arte[1], e non ho bisogno di rammentare come da Platone a Schiller, da Froebel a Read, il gioco sia stato spesso identificato o avvicinato all'arte. Ma codesto facile parallelismo non deve trarre in inganno. Quando si parla di asobi per il giapponese non s’intende offrire del gioco un aspetto “giocoso” in senso deteriore, assimilabile al hobby, al leisure. Il gioco-arte è qualcosa di estremamente serio (così come sono “seri” quei kō-an - giochi di parole, puzzles, problemi - di cui così spesso si valgono i maestri Zen per ammonire, prendere in giro, o illuminare i loro discepoli), giacché si identifica con la tecnica stessa dell'iniziazione. Prescinderò qui – tengo a precisarlo – da ogni riferimento all'aspetto iniziatico – mistico-trascendente – della dottrina buddista-zenista, giacché questo sortirebbe dai limiti del nostro tema, ed è quindi solo incidentalmente che voglio accennare come anche attraverso l'uso dei kō-an[2], dei mondō, del wa-za si possa raggiungere elevati gradi di illuminazione, sino ad arrivare a quella condizione di satori che dovrebbe coronare ogni attività umana.

Tuttavia non credo sia possibile farsi un'idea, sia pur vaga, del perché della strutturazione stessa dell'arte giapponese (influenzata dallo Zen), prescindendo dall’indagare alcune almeno delle tappe dell'insegnamento mistico; giacché concetti sui quali avremo campo di tornare, come quelli di “vuoto”, “vuotezza”, pittura d'angolo, asimmetria, indeterminatezza, velocità d’espressione, disponibilità, non sono comprensibili se non se ne indaghi la profonda ragione disciplinare-iniziatica.

Ecco, ad esempio, un altro elemento, legato al gioco e legato all'arte, che mi preme di precisare; ed è quello chiamato ko-tzu. Con questo termine si indica quel principio ultimo di vari atti, quella “spontanea dell'azione”, quella conoscenza soggettiva non trasmissibile, che porta l'uomo a rendersi padrone d’una determinata “tecnica” intendendo come “tecnica” qualcosa di molto più complesso di una tecnica “razionale” e anche di una tecnica meccanica; quella che forse si potrebbe solo definire “tecnica artistica”, ammettendo che essa potesse inglobare quello che Croce distinse in “tecnica interna” e “tecnica esterna”, con in più quel dato “intuitivo” non trasmissibile e soltanto raggiungibile attraverso la padronanza d’una determinata attività, e che viene a rientrare - come tosto vedremo - nel più vasto concetto indicato dal termine sancrito prajnā (in giapponese hānnya).

È noto che il maestro Zen non “insegna” un determinato esercizio o una determinata tecnica (neppure quando si tratta del gioco dell'arco, della scherma, del ju-jutsu), ma lascia che discepolo impari a sue spese: assiste cioè all'apprendimento da parte del discepolo. E tale apprendimento viene coronato solo in quel caso e in quel momento in cui l'atto diviene autonomo ed autoproducentesi; in cui, raggiungendo o sviluppando la prajnā, il discepolo raggiunge - non razionalmente - l'intuizione del meccanismo nell'atto stesso. Potremmo dire, per rendere in moneta spicciola occidentale questo assai complesso processo, che non si tratta qui di una accumulo di conoscenze fenomeniche, ma ad una conoscenza noumenica, che viene ad instaurarsi, e questa conoscenza acquista carattere fenomenico solo in quanto si riferisce al soggetto che l'esperimenta. Potremo forse anche azzardarci ad affermare che solo l’aver acquistato non intellettualmente, e sapere non solo concettualmente, ma quasi per un condizionamento fisiologico, un determinato procedimento che porta alla realizzazione di una tecnica, può considerarsi come Zen. Non basta dunque né la nozione intellettuale, né la mera attività riflessa (acquisibile attraverso la l’automatica ripetizione di un movimento); ma è indispensabile l’Erlebnis, l’aver “vissuto” l’atto prima ancora di averlo eseguito. Ed è a questo punto, con il raggiungimento di ko-tzu, che ogni atto diventa spontaneo. Ecco perché – come dicevo più sopra – può discorrere di una conoscenza soggettiva e non trasmissibile.

[1] Dorfles, “Attività estetica e attività ludica”, in Atti del III Congresso Internazionale di Estetica, Torino, Edizioni della “rivista di Estetica”, 1957
[2] È un bene distinguere tra le diverse forme di meditazione yogica (dhyāna), di concentrazione yogica (dhārāna), e il raggiungimento d’una “conoscenza metafisica” (prajnā).

                                                                            

       3. Le due forme di conoscenza e di coscienza

A questo punto merita conto inserire e precisare un’altra importante distinzione posta dal pensiero buddista tra le due principali forme di conoscenza, e cioè: prajnā e vijnāna. Mentre la seconda si può identificare con la conoscenza razionale, con un “principio di differenziazione”, che sta alla base d’ogni comprensione intellettiva e discorsiva, prajnā[1] è la saggezza trascendentale, o meglio soprarazionale. “Prajnā, - secondo Suzuki, - dorme in noi sotto una spessa coltre di ignoranza e di karma” ed è compito dello Zen di risvegliarla. Ma prajna è qualcosa di assai più complesso di quanto non appaia attraverso una volgarizzazione quale possono offrire le nostre parole occidentali; prajnā, è ad esempio, una delle sei parāmitā [2](che si possono definire: virtù della perfezione) ed è anzi lo “spirito vivificatore di tutte le parāmitā”; attraverso prajnā si può raggiungere sarvajnata, la conoscenza suprema che è la ragion d’essere della condizione di Budda, ed è ancora mediante prajnā  che il Bodhisatthva può contemplare la natura di tutte le cose che è “vuota” (shunija)[3] (in giapponese ku). A prajnā è del pari legato il concetto di velocità (di cui vedremo l'importanza proposito della pittura giapponese influenzato dallo Zen). Ma codesta velocità non equivale a un processo nel tempo, ma a un’immediatezza, alla contemporaneità assoluta tra pensiero e azione e forse potrebbe essere accostata a quel concetto di Augenblick che Kierkegaard aveva intuito. Ed è in questo senso – credo - di un pensiero atemporale e privo d'ogni volontà analitica (quella invece che si ritrova in vijnāna e che è frutto di un ragionamento) che può essere intesa la “folgorazione” dell'arte e che si può anche intendere il metodo creativo di molta arte influenzata dallo Zen.

Vorrei tentare ora di descrivere alcune almeno delle forme di arte che sembrano incarnare più specificatamente i concetti più sopra indicati. Non c'è dubbio - ed è stato più volte affermato - che tanto le pitture a base di inchiostro nero (sumiye), del periodo Ashikaga (1337-1573) quanto i famosi “giardini di sabbia” di Ryōanij e soprattutto le diverse formulazioni della casa del tè, siano debitrici ai maestri Zen dei loro peculiari caratteri. Così ad esempio il più puro stile dell'architettura di camere del tè - il sukiya-zukuri -  proclamava di non interessarsi al materiale della costruzione ma al vuoto in esso contenuto[4], evidente riferimento al concetto di vuoto legato a quello di prajnā.

Lo spazio della Camera del tè doveva essere un riflesso dell'Imperfetto (per questo le pareti erano lasciate gregge, senza intonaco, il soffitto era fatto di bambù non altrimenti ricoperto, e una almeno delle colonne era costituita da un tronco non del tutto piallato, addirittura provvisto della sua corteccia come si può ancora vedere nella camera della Villa Imperiale di Katsura ci Shokintei. Tanto nella camera del tè Taian (nel tempio di Myokian), che si crede disegnata nel 1582 dal famoso maestro del tè Senno Rikyu; è possibile constatare la presenza di uno di questi pilastri centrali costituiti da un ramo lasciato allo stato naturale, che contrasta con le levigate superfici della camera dove, per contro, gli altri elementi strutturali sono celati dall’intonaco per non distogliere l'attenzione del pubblico dal tokonoma (la nicchia per le immagini).

Nei giardini, secchi [5]di sabbia, l’effetto della spazialità vuota è dei più sorprendenti, per quanto si può giudicare dalle riproduzioni. Tra questi colpisce soprattutto il giardino del tempio Zen di Ryóan-ji (presso Kióto): si tratta d’un recinto rettangolare coperto completamente di sabbia bianca, entro cui cinque gruppi di pietre (unite a due, a tre, a cinque) sono sparse in ordine irregolare. Il giardino, che e privo d'ingresso, è fatto per essere contemplato dal lato d’una veranda del tempio. Un giardino come questo (che risale alla fine del Cinquecento) sarebbe certo inimmaginabile in Europa. È evidente che la ricchezza della semplicità, il lascino della “mancanza”, il rispetto del particolare rozzo, l'attesa, suscitata dall’incompiutezza e dall’asimmetria, è del tutto lontana dal pensiero occidentale, almeno da quello “classico”; ed è solo ai nostri giorni - dopo millenni di arte - che possiamo avvertire anche nei nostri paesi una prima urgenza d’accostarci ai questa particolare dimensione dell'estetica. Ma forse il “segreto” della bellezza di queste architetture e di questi giardini non è soltanto nella particolare disposizione dei materiali, delle strutture, delle piante, ma nel fatto che anche le semplici pietre, le cascatelle, gli stagni dei giardini Zen avessero un significato che sarebbe forse improprio definire “simbolico”, ma che indubbiamente aveva un preciso riferimento ad alcunché di trascendente. Si sa, ad esempio, che già nei più antichi giardini del periodo Kamakura (1186) e Yoshinochō (1334) le pietre erano suddivise e raggruppate in cinque diverse classi a seconda della loro forma: la prima era chiamata reisho-seki (roccia di forma spirituale) e simboleggiava l’unione del principio positivo e negativo; una seconda pietra e la taízo-reki (roccia-corpo) che serve di solito per la costruzione della cascata; la terza e la shintai-seki (la roccia-cuore), la quarta la shikei-seki, la quinta la kikyaku-seki, roccia inclinata ecc. A ognuna di tali pietre e agli altri elementi del giardino erano legati particolari significati: così, secondo uno scritto di Sakutei-ki di Yoshitsune (1206), citato da Jirō Harada, in un giardino la cascata simboleggia Fudō-Mlyōō[6], la terra rappresenta l’imperatore, l’acqua i suoi sudditi ecc. Chi confronti questi giardini o quelli dell’epoca Muromachi o Momoyama (coeve dunque al nostro Rinascimento), con gli elaboratissimi giardini di certe ville fiorentine del Quattrocento, e chi confronti la scarna e quasi disadorna architettura delle camere del tè e dei templi Zen con i nostri palazzi e le nostre chiese, non può non rimaner colpito, innanzitutto dallo “spirito di solitudine" e della “povertà di mezzi”, dalla semplicità quasi monastica che essi rivelano.

[1] Cfr. Suzuki, Zen und die Kultur Japans, Amburg, Rowohlt, 1959. Delle due principali correnti in cui divise la primitive seta Ze, il Rinzai-zen poneva alla base della sua dottrina l’uso di quesiti kō-an, mentre il Sōtō-zen mirava a raggiungere l'illuminazione attraverso la pratica della meditazione eseguita secondo una particolare tecnica dello star seduti immobili (shi-kan-daza). Quindi il sistema dei kō-an non deve essere considerato come ubiquitario per tutto lo zen.
[2] Si veda soprattutto il capitolo “Philosophie de la Prajnā-parā-mitā” del libro Essais sur le Bouddhisme Zen di Suzuki, vol. III, da p. 1184 a p. 1295. L’occhio supplementare delle divinità indiane e lotto di prajnā. “Cet ceil de prajnā, qui se place à la ligne de dèmarcation de l’Un et du Plusieurs, de shūnyatā, et de asbūnyatā, de Bādbi et de Klesha, de samādhi et de Karma, de l’Illumination et de l’ignorance, embrasse ces deux mondes d’un seul coup d’oeil” (p. 1266)
[3] Suzuki, Essais sue le Bouddhisme Zen, cit., p.1282: “Un des plus grands mystères de la vie spirituelle du māhāyaniste: Vivre le vide, demeurer dans le vide, et pourtant ne pas rèaliser en soi même les “limites de la rèalitè” (butha-koti)”
[4] Un’analisi assai circostanziata dello stile sukiya in architettura si trova nel volume The architecture of Japan, di Arthur Drexler, New York, 1955.
[5] Per una minuta e dettagliata descrizione dei giardini storici del Giappone e per i rapporti di essi con lo Zen si veda il vol. Japanese Gardens, di Jirō Harada, London, 1956
[6] Fudō-Mlyōō (sauscrito Acala) è una divinità, messaggero di Budda e capo dei cinque Myöö (Raja). “There is no apparent connection between Fudo and waterfalls... yet the symbol is traditionally there" (Jirō Harada, Japanese Gardens, cit., p. 10). “Among others, the Raka (Arhats of Buddhist saints) are also suggested in gardens... A group of sixteen Raka is represented merely by natural rocks. There are no marks of identification except that the rocks are in sixteen groups... Raka are generally represented as either 16 or 500 in number”. Soprattutto ci sembra importanten la seguente notazione, a p. 11: “It does not seem that the priests regarded these rocks as images of deities; rather they tried to express aesthetic principles by means of the Buddhist doctrines with which people were more or less familiar".

                                                                 

       4. I concetti di “wabi” e “sabi” 

Anche questo fatto rientra in un preciso precetto dell’estetica Zen e si definisce con la parola sabi(e wabi), che secondo una definizione di Suzuki può considerarsi come “eine ästhetische Wertschätzung der Armut”[1]. Sarebbe però errato considerare il wabi come una mera ricerca di semplicità scarna e “puritana”; wabi significa anche l’estetico che è fuso con l’etico, e significa la libertà dalla rabbia, dall’invidia, dall'irrequietezza. Wabi dunque si può considerare come un elemento di rinuncia e di assenza, ma di positiva rinuncia e assenza. La storia della teiera di Rikyu, il grande maestro del tè (1518-91), la illustra ammirevolmente. Il fatto che solo dopo essere stata rotta e ricomposta dai suoi franamenti in maniera non del tutto perfetta, la teiera - già prima “bellissima” ma non tale agli occhi del maestro - avesse finalmente acquistato il carattere wabi, ci riporta a quel concetto, cui spesso alludemmo della necessità dell’incompiutezza, dell’irregolarità, della non assoluta esattezza nell’opera d'arte.[2]

Evidentemente solo una sensibilità estremamente raffinata può apprezzare queste minute differenze, che però bastano a fare d’un semplice oggetto un capolavoro; che bastano peraltro a spiegare il perché della “bellezza” d'un rudere, d'uno schizzo, d'un abbozzo. Ma non è l'opera non compiuta perché non portata a compimento che s'identifica con wabi, giacché, come nel caso della teiera, può trattarsi dell'opera dopo la distruzione, dopo il suo compimento. Come si vede qualcosa di ben diverso dai concetti idealistici occidentali che rimanevano ancorati all'idea d'una preesistente intenzionalità dell’artista prima ancora del divenire successivo dell'opera, e d'un suo proliferare autonomo. L'opera d’arte invece può diventare tale per intervento della natura, di elementi aggiuntivi extraumani, cui lo stesso artefice non partecipa, cui l’azzardo e il caso presiede. Il wabi può sorgere proprio dalla imperfezione, dalla rinuncia e dall’azzardo.

Allo stesso indirizzo estetico e legato il particolare amore degli adepti Zen per l’asimmetrico. Già la pianta del tempio buddista è di solito contraria all’ordinamento simmetrico; e tale è inoltre la disposizione dei locali nella casa, nei palazzi; l'assenza di simmetria s’identifica anche con una assenza di equilibrio statico e quindi con una “disponibilità” che è propria dell`arte giapponese come di nessun'altra arte. Se si osservano le celebri architetture di periodo Momoyama, i templi di Nishi-Honganji, la villa di Katsura, il castello Nijō, e anche le più modeste camere del tè, si nota una costante ricerca, oltre che di semplicità, di asimmetria, che si spinge sino al rifiuto di presentare due oggetti simili o analoghi, due forme, due colori equivalenti. L’accordo tra i colori, la ripetizione, la “intonazione”, il “pendant” che ancor oggi costituiscono la base di molta arte, di molto arredamento occidentale, sono invece accuratamente evitati nell'arredamento orientale influenzato zenismo.

La spazialità, così come viene intesa nell’architettura giapponese (e tutti sanno quali influenze ebbe tale spazialità sulle opere di un Lloyd Wright, e poi d'un Mies van der Rohe), consiste nella ricezione dello spazio non come alcunché di delimitato da pareti o soffitto, ma come alcunché di indipendente e solo capace di avere un valore dovuto alla sua stessa vacuità. La casa del tè si può infatti definire anche “casa dell'anima”, o “casa del vuoto” (i due ideogrammi si identificano, a quanto ci dice Okakura[3]). E tale “vuoto” riappare ovunque nelle opere architettoniche come riappare nelle pitture, dove si contrappone al “pieno” quasi sempre asimmetrico costituito dalla “macchia”.

Il concetto - e la realizzazione del concetto - di “vuoto” è senz’altro alla base di moltissime creazioni artistiche nipponiche: “vuoti” sono spesso i celebri “giardini di sabbia” dove solo alcune pietre sparse valgono a sottolineare l'assenza di qualcosa; vuota, molta pittura, tanto quella cosiddetta “d'angolo” che buona parte di quella sumiye; vuota certa poesia come le strofe di diciassette sillabe della metrica hai-ku. Il vuoto (shunyata) è direttamente legato agli altri due principi di animitta (senza forma) e di apranihita (senza desiderio), e si identifica con quel principio che consiste nel “limite della realtà" o bhūta-kotī. È, come afferma per l'appunto Suzuki[4] “uno dei più grandi misteri della vita spirituale del mahāyanista: vivere il vuoto, dimorare nel vuoto, raggiungere il samādhi (in giapponese sammai) del vuoto, e con tutto ciò non realizzare in se stessi i “limiti della realtà” (bhūta-kotī), ossia del vuoto stesso”. In altre parole avere l'esperienza d’un vuoto “positivo” e non d'un negativo. La “natura di tutte le cose", viene del resto spesso affermato, è vuota (shunya); mentre il vuoto (shunyata) non è  eguale al “nulla”, ma designa l'identità delle cose (tathatā).

È attraverso la prajnā che il Bodhisatthva contempla la natura di tutte le cose, ch'e per l`appunto la vuotezza. Potremo, credo, concluderne che le espressioni così toccanti che ci vengono offerte sia dall'architettura (nella sua concentrata esperienza della camera del tè) che dalla pittura, e da molte altre forme d'arte visuale; sono non già il riflesso, ma l’ “incarnazione” materiale di questo "vuoto” spirituale cui l`adepto buddista tende ad arrivare.

Ma, oltre al vuoto, esiste anche una “forma” che è in certo senso complementare e indissolubile al vuoto stesso; e anche attorno a questa forma lo Zen rileva delle particolari costanti. Giunto attorno al XII secolo nel Giappone, lo Zen ha influenzato pressoché tutte le espressioni artistiche del paese, e in particolar modo la pittura sumiye, che come è noto consiste in un particolare tipo di pittura tracciata con un pennello morbido e contenente molto liquido su carta di riso sottile e assorbente, mediante un inchiostro nero. “La ragione - afferma Suzuki[5] - per cui si sceglie un materiale così fragile... è che l'ispirazione (artistica) deve essere trasmessa nel più breve periodo di tempo possibile... Nessuna riflessione è autorizzata, nessuna cancellatura, nessuna ripetizione, nessun ritocco... L’artista deve eseguire la sua ispirazione così spontaneamente, assolutamente, istantaneamente come essa appare... non deve fare altro che alzare il braccio, le dita, il pennello... come se fossero dei semplici strumenti... tra le mani di qualchedun altro, che avesse preso possesso di lui... Così viene creato il sumiye”. Questa antichissima tecnica è ancora viva ai nostri giorni in Giappone, ed è in parte conservata nello stile Nihon-Ga[6] e in certe nuove correnti come quella Gutai.

[1] Suzuki, Zen und die Kultur Japans, cit., p. 73 e passim.
[2] Cfr. il mio Discorso tecnico delle arti, cit., p. 61.
[3] Okakura Kakuzo, Il libro del tè, Milano, Bocca, 1954: “La camera del tè (sukiya) non vuol essere null'altro che una casetta... I caratteri ideografici originari del sukiya significano: la Casa della Fantasia... Ora il termine sukiya può anche significare 'La Casa del Vuoto”, e la “Casa della Asimmetria”. Lacerazione della prima Camera del Tè è dovuta a Senno Sōeki, conosciuto sotto l’ultimo suo nome di Rikyu...” (p. 56).
[4] Cfr. la nota 7 a p. 932.
[5] Essais sur le Bouddhisme Zen, cit., p. 1329.
[6] Sabro Hasegawa, Abstract Art, cit.

                                                                      

       5. L’immediatezza nella creazione artistica

L'accostamento di questa pittura con molta arte dei nostri giorni è evidente, e non sarebbe difficile rilevare le molte - più apparenti che reali - parentele. È noto quanta importanza si dia oggi all’attività immediata, quasi automatica, folgorante nella produzione di opere d’arte. Gli esempi di un Mathieu o d'un Michaux sono dei più tipici. Questi pittori, che sono stati definiti “segnici” (o, come nel caso degli americani Pollock, Resznick, de Kooning ecc., “action painters”), ascrivono un gran peso a un'attività che potremmo definire come “mio-cinetica": al “gesto” creatore, che - senza possibilità di pentimenti, di ritorni - traccia sulla tela i suoi geroglifici astratti. E indubbiamente l’analogia con certe pittografie sumiye non può non colpire[1]. Eppure è la premessa stessa di quest’attività a essere diversa, spesso opposta. Nel ghirigoro astratto, nel cifrario gestuale-segnico, il più delle volte assistiamo alla proiezione d'un automatismo inconscio, e non già, come nell’arte Zen, del risultato d’una illuminazione superconscia. L'artista moderno – nonché incapace di raggiungere il satori, di praticare le sei pāramítā, di passare per le successive tappe iniziatiche - è solo un più o meno abile giocoliere, che spesso è ben lungi da ogni raccoglimento, da ogni meditazione, da ogni concentrazione. Attraverso il suo “gesto creatore” solo torbide immagini oniriche affioranti dal suo inconscio, vengono a proiettarsi sulla tela, e non, come per i saggi maestri Zen - come per il grande Sesshū (1420-1506), come per il sacerdote Zen, Yin Yu-chien (1250), il pittore delle macchie e degli “spazi vuoti”, come per Ma Yuan (1190-1224) uno dei maestri del Sung meridionale, creatore di quell’Eineckstil (“one corner composition”) che ancor oggi ci affascina - l'espressione distillata in vasti momenti di meditazione e di rinuncia[2]. Anziché un'arte di rinuncia, di povertà, di sacrificio, di “vuoto”, l'arte d'oggi è – troppo spesso, non sempre - un'arte dell'incompiuto per il gusto dell’incompiuto, dell'istantaneo per mancanza d'una durata, dell`effimero per assenza d'una fede.

Dipinti come quelli di Yin Yu-chien sono facilmente considerabili come precorritori dell’attuale tachismo, ma si tratta più che altro d'un apparenza del tutto estrinseca. E vero che prima d’oggi l`arte dell'Occidente non aveva conosciuto quella libertà d'espressione, quella libertà compositiva, quell'importanza data al “gesto”, che è propria di molta arte estremorientale; ma bisogna tenere conto che manca quasi sempre nell’odierno tachisme l'amore del particolare minuto, il senso minuzioso d'un equilibrio raggiunto miracolosamente e che basta un niente a turbare, la devozione per la semplicità artistica, intesa come miracoloso risultato d'un'illuminazione. L’istantaneo, l’incompiuto, l’asimmetrico dell'arte sumiye è non pertanto partecipe d’una durata, d’una eternità, d'un'assolutezza che deve accompagnare ogni opera d'arte autentica e che, ai nostri giorni, ne accompagna solo ben poche.

Con tutto ciò - lo ripeto - esistono parecchi argomenti che militano in favore d’una parentela tra l'arte influenzata dallo Zen e la nostra attuale; così dicasi ad esempio di quell’elemento “imprevisto” che è sempre presente nell’arte sumiye mentre, per contro la differenza tra quest'arte e quella occidentale antica è categorico. L’elemento imprevisto, il caso, l'azzardo, che era quasi assente dall'arte occidentale, o che quanto meno, era accuratamente nascosto dalle sovrastrutture razionali, e invece esploso nell'arte dei nostri giorni, sino a raggiungere il parossismo delle tecniche del dripping, del ghirigoro istintivo, del doodle divenuto segno, della materia autoformantesi, come lo sono molte resine, smalti, conglomerati, le cui virtù formative risiedono spesso nella casualità dei loro accostamenti.

Anche l'atto stesso della creazione presenta delle curiose analogie: “I muscoli, - afferma Suzuki, - sono coscienti di tracciare una linea, di mettere un punto, ma dietro ad essi c’è un incoscienza”. È, come si vede, esattamente quello che ho definito dianzi come elemento mio-cinetico inconscio. Ma mentre nel bambino e nell'artista moderno, attraverso i movimenti miocinetici viene proiettato un inconscio “non educato” - vorrei dire - un inconscio che non ha dietro di sé nessuna preparazione anche fisica dovuta alla rinuncia, alla meditazione, alla concentrazione, attraverso le miocinesie degli artisti Zen vengono proiettate delle “verità” attinte certo in ben altre sfere, in sfere di più alta spiritualità, di più smaterializzata coscienza.

L'introduzione della velocità nell'arte occidentale è senz`altro il “fatto nuovo” cui abbiamo assistito nel XX secolo, e che si contrappone alla lentezza, alla meticolosità, alla lunga decantazione, che avveniva di solito nelle costruzioni artistiche del nostro passato. E alla velocità si accompagna altresì l`improvvisazione, l'elemento estemporaneo - partecipe dell’Augenblick - che sempre riappare, oltre che in pittura, nella musica più recente e nella poesia. L’estemporaneità dell’improvvisazione, che resterà “issata" nel tempo e si sottrarrà alla volontà analizzatrice e raziocinante dell’occidentale, e che mirerà -consapevolmente o non - a raggiungere quella levità palpitante e singolarmente incisiva di certa arte orientale.

 È probabile, a dir il vero, che l’interpretazione della cultura e dell’arte giapponese da parte di artisti e di critici occidentali (totalmente ignoranti della lingua, dei costumi, dell'atmosfera dell’Oriente ) porti a risultati del tutto opposti a quelli desiderati o richiesti dagli antichi e dai nuovi maestri dello Zen; ma anche questa ipotesi non ci sembra temibile; può anzi essere particolarmente fruttifera; spesso le opere più originali sorgono sulla base di false influenze, di paradossali interpretazioni, di stolte teorizzazioni scientifiche (si pensi all'impressionismo, al futurismo ecc.). Quello che conta è che gli artisti abbiano quelle qualità di inventiva e di originalità senza le quali non è possibile la creazione d'una nuova forma d'arte. E perciò, anche se la nostra civiltà è lontana da satori, da dhāyna, da samādhi, è lontana cioè dalla meditazione e dall’illuminazione, dalla concentrazione, dalla spontaneità creativa dell'arte dell’antico Oriente, ciò non toglie che un avvicinamento, sia pur superficiale ed estrinseco, alle dottrine Zen possa essere prezioso. Proprio perché l’uomo d’oggi è immerso, da un lato, entro una raziocinante attività intellettiva, e dall'altro in una, meramente patetica, creatività impulsiva, ed è lungi sia dalle profondità d’una conoscenza prajnā che da quelle d'una “spontaneità” tecnica wa-za. L’unica salvezza, perciò, che si possa preconizzare per l'arte odierna è proprio nella sua evasione dalla razionalità e dal cerebralismo, ma anche dalla meccanicità del tecnicismo e dall’automaticità dell’inconscio.

Forse solo quando le due correnti di pensiero, l’orientale e l'occidentale, siano giunte a un autentico incontro, solo quando l’arte non sia più esclusivamente sensuale e il pensiero conoscitivo non sia più esclusivamente razionale, potrà avvenire che rinasca, anche nella nostra età, una nuova e feconda corrente di pensiero creativo ed artistico.

[1] Si veda su questo argomento l’articolo di André Masson, "Une peinture de l'essentiel”, in Quadrum, 1, 1956, Analizzando l`arte estremorientale in confronto alla nostra il pittore francese osserva: “Pour Mou-ki, comme pour Sesshū, il s’agit d’une manière d'exister - au sens profond – et non comme pour nous d’une maniere de faire. Pour eux c'est une manière de se fondre dans la vie universelle, et pour nous une façon de resumer... Quand Ying-Yu-Kien nous montre un village aperçu à travers le dèchirement de la brume, il est lui-meme météore”.
[2] Si veda a questo proposito il volumetto Pittura Zen, dal secolo XVII al secolo XIX, Roma, Del Turco, 1959, pubblicato in occasione della mostra di pittura Zen al Centro Culturale San Fedele, Milano, che contiene interessanti saggi di Awakawa Koichi e Heinz Brasch e dove sono riprodotti importanti lavori di maestri Zen come lsshi (1608-1646), Hakuin (1685-1768), Sengai (1750-1837) ecc., appartenenti alla cosiddetta zenga (pittura Zen) moderna.